Un fantasticar di morti: i "Racconti fantastici" di Iginio Ugo Tarchetti


(di DEBORAH MADURINI) - “Nato pel cielo, e tutto in quello assorto”: con queste parole Emilio Praga dipinge, in occasione della prematura scomparsa, Iginio Ugo Tarchetti, artista d'animo oltremodo sensibile, travagliato da profonde e cupe malinconie. E sono parole, quelle di Praga, che trovano conferma, oltre che nella vita, anche nell'opera letteraria di Tarchetti e in particolar modo nella sezione fantastica di quest'ultima, il cui esito forse più riuscito è quello dei Racconti fantastici, pubblicati nel 1869 per conto dell'editore Treves.
Per Iginio Ugo Tarchetti, infatti, fantastico significa ricercare nel proprio mondo interiore, governato da leggi mistiche e irrazionali, la via di fuga da una realtà che, incapace di comprendere la sua astrattezza lo opprime al punto di spingerlo a vagheggiare la morte. Fantastico è per Tarchetti ripiegamento su di sé, sul proprio io interiore, ma al contempo è inesausta tensione verso l'ignoto e il soprannaturale il cui fine ultimo risulta essere la rivendicazione della fantasia e dei valori spirituali dell'uomo in un'epoca in cui gli artisti si vedono sottratto dal progresso scientifico il compito di rappresentare e descrivere la propria realtà.
Ma il fantastico tarchettiano si palesa anche quale denuncia urlata e guerra mossa alla propria società e a quell'affaristica classe borghese che, crollati gli ideali risorgimentali, va a poco a poco affermandosi in Italia. Dietro a fantasmi, follia e possessioni spiritiche, infatti, si cela un ribellismo tutto scapigliato!
Tale carica eversiva emerge con chiarezza, nei Racconti fantastici, in particolare ne La lettera U (Manoscritto d'un pazzo), il racconto che narra l'ossessione di un uomo per l'orrida vocale dalla “curva aborrita”: fin dall'infanzia il protagonista cova un odio profondo per la suddetta vocale, cogliendone il messaggio nascosto e terribile, incomprensibile a tutti gli altri uomini (non folli). Il folle è, così, dotato di un'intelligenza sovrumana e di uno spirito elevato rispetto a quello degli altri: vede e sente ciò che nessuno riesce a cogliere e per questo motivo la sua intera esistenza sarà all'insegna dell'incomprensione e del disprezzo altrui. Ne La lettera U, poi, Tarchetti dà prova di uno sperimentalismo grafico mostrando il segno U così come esso appare al personaggio del racconto nel suo delirio, in un ritornare ossessivo e abnorme che lo spoglia del suo convenzionale significato di lettera dell'alfabeto e lo trasforma in un elemento conturbante. Questo perché Tarchetti va contro l'ordine logico e razionale del mondo che la società positivista dà per scontato. È proprio la società positivista, infatti, a ritenere che ogni parola debba obbligatoriamente intrattenere determinate relazioni (benché arbitrarie) con l'oggetto, o elemento astratto, cui è associata. Tarchetti vuole dimostrare che queste relazioni sono del tutto inesistenti e, di conseguenza, che non esiste alcun ordine logico e razionale in grado di governare quel mondo sempre più influenzato dagli studi scientifici.
L'atto di scindere la vocale dal suo significante convenzionale è, allora, un gesto di protesta, una metafora della desiderata distruzione di quell'ordine razionale tanto predicato dal Positivismo ed è così che, in modo più implicito, tornano la condanna e l'accusa rivolte a una società cieca verso i bisogni del popolo e dell'essere umano in generale, che erano proprie di Paolina (1865 - 1866) e di Una nobile follia (1866 - 1867). Il ribellismo di Tarchetti non si spegne nel corso della sua produzione letteraria: semplicemente assume forme diverse e più elaborate. Il disprezzo verso un mondo sfruttatore e ipocrita sarà sempre uno dei motivi principali per cui Iginio prenderà in mano la penna.
Il fantastico più propriamente detto, comunque, quello più macabro e spaventoso dei Racconti fantastici, è sicuramente quello delle restanti quattro narrazioni, ossia I fatali, Le leggende del castello nero, Un osso di morto e Uno spirito in un lampone. Ne I fatali e Le leggende del castello nero fa il suo ingresso trionfale la tematica della donna consunta/donna-scheletro. Per Tarchetti la vera bellezza della donna si palesa proprio nella malattia: è in questo momento, infatti, che ella si fa più vicina al cielo allontanandosi dalle sue spoglie mortali e si rivela quale spirito. È una bellezza chiaramente soffusa di morte e che sembra sottendere una sottile necrofilia, ma che fa sì che l'amante, attraverso la donna, si senta più vicino alla realtà celeste. È questo il caso de I fatali, in cui Silvia, fanciulla giovane e bella, sotto l'influsso del suo futuro e fatale sposo, il barone di Saternez, si ammala improvvisamente e deperisce fino a sfiorare la morte mostrando “la bellezza di un fiore sbocciato all'ombra, di un frutto maturato precocemente perché roso dal tarlo”. La fanciulla de I fatali ricorda da vicino l'eterea Adalgisa di Lorenzo Alviati, primo della trilogia dei racconti di Amore nell'arte, la quale riesce a farsi amare da Lorenzo soltanto nel momento della malattia, che la trasfigura al punto da rivelare la più pura spiritualità. I personaggi maschili dell'opera di Tarchetti, dunque, ricercano un amore ideale e sovrumano: la donna “di carne” risulta troppo imperfetta e mediocre per farsi oggetto del sentimento più nobile e ambizioso dell'uomo e, di conseguenza, preso atto dell'impossibilità di trovare nella donna l'ideale, prenderanno vita l'imperfezione e la deformità che permetteranno ai protagonisti maschili di decifrare il mistero della femminilità.
La fanciulla de Le leggende del castello nero, invece, è la tarchettiana donna-scheletro propriamente detta: la donna appare in sogno al protagonista per un certo numero di notti e, immersa in un paesaggio da romanzo gotico, rammenta all'uomo frammenti di una loro esistenza passata, fino a quando non svelerà il proprio volto luciferino nell'amplesso mortuario. Amplesso durante il quale lei assumerà sembianze di scheletro. La donna si configura così quale pulsione di morte per l'infelice amante mettendolo in relazione con le forze occulte dell'aldilà e celebrando un matrimonio che è già un funerale. 
Morte e cadaveri, comunque, sono spesso metafora di quell'Italia post-unitaria dentro alla quale operano gli intellettuali dell'epoca, i quali si trovano costretti a lottare per riuscire ad affermare la propria individualità ed interiorità. Vediamo, allora, come le atmosfere funeree e la tematica mortuaria simboleggiano una società spregiudicata e opportunista in cui la scienza sembra uccidere l'ideale attraverso il reale e testimoniano, di conseguenza, la volontà di calarsi in un universo fantastico in cui cadaveri e fantasmi sono da sempre i protagonisti prediletti. In questo caso sarà bene considerare Un osso di morto, in cui si verifica l'apparizione di un fantasma, il cui corpo non ha ricevuto una degna sepoltura e Tarchetti si riferisce qui a una sepoltura che non è stata concessa dalla scienza, la quale detiene per i propri studi i cadaveri umani e non permette ai defunti di riposare nemmeno dopo la morte.
Amore e morte sono, comunque, lo abbiamo visto, un binomio imprescindibile nell'opera tarchettiana: l'amore è percepito da Tarchetti in modo prettamente romantico (e ciò è testimoniato dal carteggio con Carlotta Ponti, ricco di venature e pathos ortisiani), attraversato costantemente da pulsioni di morte che tendono a sublimarlo: I fatali ne sono l'esempio più esplicito. In Uno spirito in un lampone, infine, entra in gioco la metempsicosi: ambientato in Calabria, nel racconto si narra la vicenda del virilissimo barone di B., che dopo aver mangiato dei lamponi viene abitato dall'anima di una ragazza assassinata: il suo corpo infatti era stato sepolto proprio sotto l'albero da cui il barone avevo colto i frutti. Si riflette qui sul rapporto tra corpo e anima che tanto affascinava i cultori delle scienze occulte.
La morte, dunque, è una costante che ha percorso per intero l'esistenza di Tarchetti turbandolo e al contempo affascinandolo, stimolando in lui l'estro creativo, ma facendo anche sì che sprofondasse in una penosa melanconia. L'acuta sensibilità, le condizioni di salute sempre cagionevoli, l'incomprensione verso un mondo ostile, che sembrava non appartenergli, lo portarono a domandarsi continuamente cosa si celasse oltre la vita terrena in una costante lotta con i propri fantasmi interiori. 
L'esistenza di Iginio su questa terra è stata breve e dolorosa e il nostro cuore si strazia nel ripercorrere, attraverso i suoi biografi, i tormenti che hanno costellato la sua vita, ma, per citare Francesco Guccini, “un dubbio, un sospetto od un sogno io almeno ce l'ho”: forse oggi, oltre le porte dell'impossibile, in un mondo dove può finalmente e liberamente spiegare le sue ali, Iginio sorride, pago di una meritata felicità.

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