Il coraggio del "cinema dalle finestre che ridono" di Pupi Avati


(di LUCA RAIMONDI) - Dovessi ridurre l'horror italiano degli ultimi trent'anni a pochi nomi, ecco i primi che mi verrebbero in mente: Eraldo Baldini, Dario Argento, Tiziano Sclavi, poi una sfilza di nomi con cui ho recentemente collaborato (da Danilo Arona a Nicola Lombardi) e infine indicherei sicuramente Pupi Avati. Un nome che mi sovviene sempre in ritardo, in questo tipo di elencazione, soprattutto per il fatto che la componente horror del cinema di Pupi Avati è di certo minoritaria rispetto a tante altre prove in generi ben diversi, come ben sapete, legati alla memoria, al ricordo, all'infanzia. Sia pure con una certa esitazione iniziale, alla fine Pupi Avati lo inserirei sempre e comunque. Non tanto o non solo per "La casa delle finestre che ridono", che pur essendo uno dei film più paurosi del cinema italiano non presenta comunque nulla di sovrannaturale e si colloca piuttosto nel filone dei primi thriller argentiani, varianti del giallo tradizionale più potenti dal punto di vista emotivo e spettacolare, quanto per un altro terzetto di film notevolissimi: Zeder, L'arcano incantatore e Il nascondiglio (che un po' come Le case dalle finestre che ridono gioca con gli stilemi dell'horror per raccontare una storia angosciante, certo, ma senza elementi fantastici). I primi due in particolare hanno assunto ormai l'aura luccicante del "cult movie", mentre continua a rimanere sottovalutatissimo il terzo. Dovremmo poi menzionare altri film degli esordi come Balsamus l'uomo di Satana, Thomas gli indemoniati, Tutti defunti tranne i morti, Le strelle nel fosso. Avati, come autore, ha tante sfaccettature, e della sua passione verso il fantastico, il mistero, l'ignoto, si è occupato Luca Servini in un libro che ho letto e riletto, Pupi Avati, il cinema dalle finestre che ridono, un'autentica gemma partorita dalla benemerita collana di cinema delle Edizioni Il Foglio di Gordiano Lupi. Una casa editrice per cui pubblico anch'io, ma non si scambi questa recensione per una marchetta o per un favore che faccio a Lupi o a Servini (che non conosco direttamente). Il libro curato da Servini è stato davvero il mio "cult book" del 2017 (è uscito nell'aprile di quell'anno) e uno dei primi libri da recensire che mi sono venuti in mente quando, con Giuseppe Maresca e Lea Valti, ci siamo imbarcati nell'avventura de "Il gorgo nero".
Si tratta di un viaggio lineare e godibilissimo nella filmografia più eccentrica del prolifico regista, un volume a più voci (Servini di fatto ha affrontato direttamente solo tre pellicole e la produzione televisiva) che mi ha fatto riassaporare i suoi capolavori e riscoprire alcuni titoli purtroppo dimenticati o mai visti. Senza nulla togliere a queste altre pellicole rimosse ma comunque da riscoprire, rivivere la perturbante riviera romagnola di Zeder è stata una madeleine proustiana che mi ha riportato alla mia tarda adolescenza, in cui divoravo film del genere, e fatto riflettere su quanto sia difficile ambientare storie horror in Italia (nazione solare, allegra, ridanciana, la cui tradizione è legata al realismo e alla commedia) ma su quanto poco gli autori, quelli "seri", premiati, dal solido sottostrato culturale, tanto del cinema quanto della letteratura, abbiano voluto correre certi rischi e sfidare gli stereotipi e le aspettative del pubblico nostrano. Zeder in particolare è un esempio paradigmatico di film che trapianta a meraviglia certe consuetudini dell'horror, giocandosi anche un'idea originalissima (che sarà poi anche alla base del romanzo Pet Sematary di Stephen King, uno dei titoli più spaventosi dello scrittore del Maine), in un'ambientazione altrettanto innovativa. L'autore del saggio su Zeder, Fabrizio Fogliato, è abile a non soffermarsi poi soltanto su quest'aspetto legato alla location, che pure ha contribuito alla fama del film, ma a soffermarsi sulle tematiche della morte e della memoria (il nastro della macchina da scrivere come suo surrogato), che poi sono alla base anche di tanti altri film dell'autore. Un autore, lo ricordiamo, preparato e colto, che si contraddistingue per la sua capacità di ricostruire con precisione epoche storiche anche lontane (in tal senso dovreste recuperare il dvd del suo kolossal I cavalieri che fecero l'impresa, il suo commento fuori campo è vertiginoso per la qualità e quantità delle informazioni storiche snocciolate), abilità che si può apprezzare particolarmente ne L'arcano incantatore (in Italia, al solito, non se lo fila più quasi nessuno, all'estero invece Guillermo Del Toro o Quentin Tarantino lo considerano un capolavoro). Per non parlare poi dell'attenzione - davvero rara nei registi horror - riservata agli attori, basti pensare che sia il protagonista di Zeder (Gabriele Lavia) che quello de L'arcano incantatore (Carlo Cecchi), sono attori teatrali di chiara fama e non i soliti "bei faccini" dalle nulle capacità espressive.
Gli autori del libro (oltre a Fogliato citiamo Giovanni Modica, Fabio Zanello, Michele Bergantin, Corrado Artale, Aurora Auteri), ben coordinati da Servini, conducono un'indagine di rara precisione e accuratezza, ricca di spunti e curiosità, arricchita da interviste a Cesare Bastelli, Giulio Pizzirani, Roberta Paladini, Giovanni Veronesi, nonché agli attori Stefano Dionisi e Laura Morante (il primo co-protagonista de L'arcano incantatore, la seconda de Il nascondiglio). La prefazione? Dello stesso Pupi Avati, ovviamente. "Se dovessi metaforizzare il mio mondo con lo schema di una squadra di calcio, direi che Luca Servini è un trequartista che, soprattutto negli scontri più difficili, metterei in campo sempre". Un grande complimento per Servini, paragonato in sostanza a un Baggio o a un Del Piero, che arriva da uno dei maggiori autori cinematografici di sempre (ma in qualche altra occasione scriverò anche della validissima narrativa di Pupi Avati, anch'essa, come molto suo cinema, forse un po' sottovalutata).

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