L’ERESIA DELLA VERITÀ: IL MISTICO DEL GIUDIZIO DI DAVIDE S. CATALDO

(di LUCA RAIMONDI) - Negli ultimi anni, il fenomeno del self publishing ha rivoluzionato il panorama editoriale, offrendo agli autori la possibilità di pubblicare le proprie opere senza il filtro delle case editrici tradizionali. Se da un lato ciò comporta il rischio di una minore selezione qualitativa, dall’altro rappresenta una straordinaria occasione di libertà creativa: chi sceglie l’auto-pubblicazione può scrivere fuori dai canoni di mercato, esplorare strutture ibride, generi misti, temi poco commerciali o troppo sperimentali per i cataloghi delle grandi sigle. Nel contesto italiano, ancora restio a considerare il self publishing come un’alternativa pienamente legittima, emergono però sempre più opere che meritano attenzione, per il coraggio, l’originalità e la voce autentica che portano con sé. 
Il Mistico del Giudizio, primo romanzo di Davide S. Cataldo, presente a Etna Comics 2025, è un esempio emblematico di questo tipo di produzione: un’opera stratificata, visionaria, a tratti estrema, che forse non avrebbe trovato spazio nell’editoria tradizionale, ma che proprio nella sua indipendenza trova la forza di osare, di costruire una mitologia personale, di parlare con autenticità. Il Mistico del Giudizio di Davide S. Cataldo si impone come un romanzo ibrido e coraggioso, capace di fondere elementi del fantasy classico con il thriller esoterico, il gotico e una forte componente orrorifica. Primo volume della saga I Creatori, si presenta fin da subito come un'opera che rifugge ogni facile classificazione. Invece di inseguire le formule del genere, Cataldo costruisce un mondo in cui la ricerca della verità si intreccia con il sospetto, l’eresia e la discesa nei territori oscuri della conoscenza proibita. 
L’autore, nella sua nota introduttiva, dichiara il debito verso Quentin Tarantino, e il riferimento non è gratuito: il romanzo alterna salti temporali, incipit apparentemente scollegati, registri narrativi multipli. Il prologo urbano — con toni noir e realismo sporco — affonda le radici in un presente decadente, a Palermo, mentre la vicenda si dirama tra epoche differenti (dal 1832 al XXI secolo), passando per luoghi dal forte potere simbolico: la Corsica, la Sicilia, l’Appennino tosco-emiliano. In questo universo, il protagonista Adoir Monne si muove come figura ambigua e tormentata. Apparentemente consigliere leale della Suprema Edmea Castro nella Fortezza Bruna di Helmingur, Monne diventa progressivamente il centro di una spirale di sospetti, ossessioni e rivelazioni. La morte inspiegabile di Lady Edmea — il suo corpo ritrovato completamente bruciato all’interno, ma intatto all’esterno — innesca una catena di eventi che metterà in discussione non solo la fiducia all’interno dell’Ordine, ma la natura stessa del potere e della verità. 
Parallelamente, nella Palermo contemporanea, un giovane protagonista senza nome — fotografo, poeta e lettore inquieto — si imbatte in un antico taccuino custodito sotto una mattonella della propria stanza. Il quaderno, scritto in parte in latino e in parte in una lingua sconosciuta, apparteneva a un certo Lord Acanfora Buonconvento, personaggio già apparso nel passato. L’oggetto, simbolo di un sapere oscuro e forse pericoloso, innesca una seconda trama che si intreccia a quella storica, delineando un ponte sottile tra mondi, tempi e coscienze. 
Elemento centrale del romanzo è la presenza costante — e mai pienamente spiegata — di una forza oscura: Bahargül. Più che un’entità, è un principio di corruzione, un’energia maligna che si manifesta attraverso possessioni, combustioni spontanee, parole non umane, visioni. L’horror in Cataldo non è mai gridato: è sussurrato, insinuante, legato alla sensazione che la realtà abbia delle crepe. I personaggi, spesso solitari, percepiscono una minaccia che non riescono a nominare, e che per questo diventa ancor più pervasiva. Non mancano scene cariche di tensione: la morte del giovane infiltrato René Baudoni, arso vivo senza contatto con il fuoco; la visita notturna della donna del piano di sopra, una sgualdrina misteriosa che cambia colore degli occhi e si presenta mezza nuda nella notte piovosa; la scoperta di un cofanetto nascosto nella montagna, al cui interno si cela il taccuino “non scritto da mani ordinarie”. 
Il romanzo gioca con l’idea che conoscere possa essere pericoloso. La verità non è liberazione, ma condanna. La scrittura stessa — i documenti, i testi, le lettere — non è garanzia di chiarezza, ma veicolo di contaminazione. Il sapere, come in certi racconti lovecraftiani, è una porta che non si può richiudere. Il romanzo è pervaso da una tensione tra sacro e profano, tra illuminazione e follia. La morte è sempre vicina, e mai banale: è una soglia, un punto di passaggio e deformazione della realtà. Non è un caso che molte delle scene più significative si svolgano di notte, in case deserte, in fortezze di pietra o in boschi isolati. L’ambientazione stessa diventa personaggio e strumento di inquietudine, secondo una lezione che va da Poe a Bava. A tutto questo si aggiunge la consapevolezza, da parte dell’autore, che l’horror più radicale non è nelle creature, ma nel dubbio: “dubitate anche voi del passato o non ve ne importa nulla”, scrive nella nota iniziale, come sfida al lettore. La componente orrorifica si nutre di questa sospensione epistemologica: nulla è stabile, né la storia, né la fede, né i legami umani. La verità è forse un’illusione, e le illusioni possono uccidere. L’Ordine di Eldur richiama vagamente strutture templari e monastiche, ma la fede che vi si professa è già contaminata da tensioni interne, poteri oscuri e segreti secolari. Il tono non è blasfemo, ma eretico nel senso letterario del termine: il protagonista cerca la verità al di là del dogma. In questo senso, la figura di Monne è paradigmatica: devoto eppure inquieto, fedele eppure sospettato, si muove tra il bisogno di credere e l’incapacità di accettare ciò che viene imposto come vero. La Bibbia, evocata dallo stesso autore nella nota introduttiva come “il più grande libro fantasy della storia”, diventa il punto di partenza per una narrazione alternativa, in cui mito, fede e finzione si fondono in una nuova cosmologia. 
Cataldo scrive con passione evidente, alternando registri e influenze con disinvoltura. La lingua è ricca, talvolta barocca, ma coerente con la materia narrativa. Le descrizioni sono vivide, le atmosfere forti, le emozioni cariche. C’è un gusto per il dettaglio, soprattutto nei momenti più oscuri o sacri, che restituisce profondità alle scene. Il romanzo non è esente da eccessi e sbavature: la struttura frammentata può confondere, alcune digressioni sono più suggestive che funzionali, e il ritmo narrativo a volte ne risente. Ma sono limiti comprensibili in un’opera prima che ha il coraggio di puntare in alto, senza cercare scorciatoie. 
Il Mistico del Giudizio è un romanzo che chiede attenzione, ma offre in cambio un viaggio raro nella letteratura italiana contemporanea. Non si limita a raccontare una storia: evoca un universo, impone un linguaggio, sfida il lettore a guardare nell’abisso. E forse, come accade ai suoi personaggi, chi guarda troppo a lungo dentro certi misteri ne esce trasformato. Il primo libro della saga I Creatori promette di essere solo l’inizio di un percorso narrativo più ampio. Se i prossimi volumi manterranno — e magari affineranno — questa carica visionaria e disturbante, siamo davanti a una delle esperienze letterarie più originali degli ultimi anni.

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