"DIABULUNA" A MONGIBELLO: INTERMITTENZE E RICORRENZE DEL GENERE PARANORMALE NEGLI SCRITTORI SICILIANI

Riproduciamo di seguito la prefazione di Salvo Sequenzia alla raccolta di "racconti del paranormale" Satanassi e belle signore di Raimondo Raimondi (Edizioni Il Foglio, 2021). 

“DIABULUNA” A MONGIBELLO

Intermittenze e ricorrenze del genere paranormale negli scrittori siciliani

 di Salvo Sequenzia 



Leggendo Satanassi e belle signore, sapida e maliosa raccolta di «racconti del paranormale» che Raimondo Raimondi consegna al pubblico in un tempo – quello che tutti noi oggi stiamo vivendo – in cui «normale» e «paranormale» sembrano essersi scambiati i ruoli, mi è tornata alla memoria la celebre battuta con cui il critico Pietro Bianchi licenziò la recensione a La moglie di Frankenstein (Bride of Frankenstein, di James Whale, 1935) sul settimanale umoristico milanese «Bertoldo», investendo il genere dell’orrore di un «luogo comune», poi divenuto un vero e proprio stigma, tipico della cultura italiana: «Da buoni mediterranei non abbiamo alcuna simpatia per gli orrori. Spiriti, mostri, fantasime li lasciamo agli uomini del nord». Eppure, pochi luoghi al mondo come l’Italia e la Sicilia sono stati frequentati e “abitati” dal «paranormale» con una assiduità a dir poco sospettevole. Di tale assiduità la letteratura si è fatta spesso indiscreta testimone, se non addirittura sodale, complice e cospiratrice.

In principio fu il Mongibello.

Se, infatti, come vuole Maria Corti (Catasto magico, 1999), tra le ariose schermaglie di Eolo e le sulfuree intemperanze di Tifeo, nelle sotterranee fucine di Efesto e sulle sommità del vulcano, si danno congrega e s’adunano giganti mitologici, diavoli e creature fatate, anche il semiologo russo Jurij Lotman, visitando l’Etna e il bosco del Ragabo in compagnia dell’editore e sodale Mario Grasso alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, non rimase indifferente all’ineffabile fascino dell’ignoto scorgendo in quei luoghi fate e muse «fare il girotondo», come disse all’accompagnatore citando un antico adagio delle sue terre. D’altra parte, anche i pastori di piano Provenzana sono adusi da tempo immemorabile a visitazioni notturne soprannaturali la cui memoria è incisa nei versi tramandati nel loro aspro dialetto: «Diabuluna, c’abbitati Muncibeddu, / scinniti, ca bbi veni di calata; / puttativi la ‘ncunia e lu matteddu, /cc’è di buscari na bbona iurnata».

La Trinacria, da sempre, è “posseduta” dal paranormale, che intrama, alita e nutre il «quotidiano favoloso» degli isolani con quelle «ebullizioni di chimere» attraverso le quali il Mago Cotrone, ne I giganti della montagna di Luigi Pirandello, seduceva la compagnia della contessa Ilse Paulsen: «Siamo qua come agli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando, si distaccano; entra l’invisibile: vaporano i fantasmi. È cosa naturale. Avviene, ciò che di solito nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia» (Atto II).

Dalle ottave che l’arcade Giovanni Meli dedicò alla Villa dei Mostri a Bagheria (Giovi guardau da la sua reggia immensa / la bella Villa di la Bagaria, / ùnni l’arti impetrisci, eterna e addensa / l’aborti di bizzarra fantasia. / “Viju – dissi – la mia insufficienza; / mostri n’escogitai quantu putìa; / là duvi terminau la mia putenza, / ddà stissu incuminciau Palagonia”», passando per l’interesse nutrito per il paranormale da scrittori quali Capuana, De Roberto, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, sino a giungere a scrittori siciliani contemporanei quali, tra gli altri, Chiara Palazzolo, Marinella Fiume (Sicilia esoterica, 2013) Massimo Maugeri (Trinacria Park, 2013) Simona Lo Iacono (La coda di pesce che inseguiva l’amore, 2010), Corrado Di Pietro (Cassandra, 2020) e Luca Raimondi (Marenigma, 2021), i cui saggi, romanzi e racconti sono attraversati e brividati dall’orrido, dal fantastico e dal paranormale, di fatto, la letteratura siciliana sfata il luogo comune che il paranormale e l’horror siano generi relegati a una «letteratura minore».

Nella seconda metà dell’Ottocento, allucinazioni, condizioni psichiche alterate, trances magnetiche e spiritiche connesse agli studi sull’isteria erano spesso collegate all’attività del genio e alla creazione artistica, che si configura come manifestazione del daimon e come momento di eccitazione fuori dalla norma. Anche lo scrittore poteva essere un caso clinico da studiare insieme alle isteriche, ai sonnambuli e ai medium. Come ha acutamente osservato Simona Cigliana (2005), nel saggio pubblicato nel 1908 e dedicato a Arte e Scienza, Pirandello sostiene che l’opera dell’artista scaturisce da uno stato d’incoscienza, sul modello della condizione alterata messa in luce da Alfred Binet nel volume Les altérations de la personalité (1892).

Nei primi decenni del Novecento, nella remota magione di Capo d’Orlando, a Vinea, i baroni Lucio e Casimiro Piccolo di Calanovella, intellettuali tra i più colti e raffinati del loro tempo, intrattenevano occulti commerci con le anime dei trapassati fotografando e dipingendo gli elfi e le fate che popolavano il loro giardino. Lucio Piccolo, poeta, musicologo e filosofo, intrattenne per anni una corrispondenza epistolare con il poeta irlandese William Butler Yeats sulla natura delle fate e sulla importanza dell’elemento equoreo nello spiritismo. Sarà proprio dall’elemento equoreo che Giuseppe Tomasi di Lampedusa, cugino dei Piccolo e autore de Il Gattopardo (1958), farà scaturire una delle figure più sensuali e insidiose della letteratura di tutti i tempi, la sirena Lighea, protagonista del racconto La sirena (1958).

Mentre nella Palermo del XVII faceva la sua apparizione uno dei primi assassini seriali, tale Francesca Rapisardi, detta La Sarda, avvelenatrice e «imprenditrice del veleno» così la definì Rosario La Duca nel suo prezioso I Veleni di Palermo (1976) – nel XVIII secolo una sua emula, Giovanna Bonnano, la Vecchia dell’Aceto, inaugurava alla Zisa un vero e proprio «business della morte» somministrando ai moribondi la sua pozione a base di aceto per pidocchi per affrettarne la morte. La carriera della Vecchia dell’aceto si concluse quando fu presa e rinchiusa in quello che a quei tempi era stato un luogo di detenzione per streghe, fattucchiere ed eretiche: il carcere dello Steri. Qui la donna fu processata e condannata per veneficio e stregoneria, come narra Luigi Natoli, l’autore de I Beati Paoli (1912), in un suo famoso racconto.

Nutriti da un humus socio-antropologico del genere, seguendo l’oscuro crinale delle turbe psichiche, dell’incesto, del delitto e del maleficio scrittori come Luigi Capuana tentano di giungere, con la loro scrittura, al cuore nero fantasmatico che si nasconde sotto la realtà.

Per gli studiosi delle origini e degli sviluppi del genere paranormale in Italia, Luigi Capuana è un riferimento imprescindibile ma, spesso, quasi ignorato, in quanto sulla sua opera grava l’etichetta “realista” che lo apparenta a Giovanni Verga annoverandolo tra i rappresentanti di punta del verismo italiano.

Sentimenti drammatici – violenza, follia, incesto, assassinio – insieme alla registrazione di eventi fuori dal comune – fantasmi, entità ultraterrene, vampiri, mostri creati da esperimenti medici irrompono nelle vite dei personaggi dello scrittore siciliano e le sconvolgono, da Spiritismo? (1884), a Un vampiro, racconto apparso su «La lettura» nel 1904 e poi in volumetto nel 1907, sino a Storia fosca (1881). L’indagine negli ambiti dell’occultismo e della parapsicologia ha prodotto fecondi influssi sull’opera del mineolo; influssi ereditati in seguito da scrittori conterranei come Luigi Pirandello.

Tutta l’opera di Pirandello è inquietata dal paranormale. Dall’anatomia della follia che affiora dalle pagine de L’Esclusa (1901), il suo primo romanzo, all’epifania di Madama Pace ne I sei personaggi in cerca d’autore (1921), all’attenzione mostrata per la teosofia e per lo spiritismo da Anselmo Paleari ne Il fu Mattia Pascal (1904), sino all’evocazione delle Donne di fuorastreghe dell’aria che vanno in giro di notte a sostituire bambini belli e sani con altri deformi e malaticci ne La favola del figlio cambiato (1931) e alle creature di sogno che vivono nella Villa della Scalogna ne I giganti della montagna (1934) non a caso pubblicato nel 1931 su La Nuova Antologia con il titolo I fantasmi. Lo scrittore agrigentino volge lo sguardo alle zone più oscure della coscienza facendo affiorare gli avatar che, come materializzazioni, apparizioni o epifanie, rendono conto di una realtà e di un mondo autre che la letteratura è chiamata a scandagliare e a investigare.

Nel saggio Arte e scienza del 1908, Pirandello parla di un’attività inconscia creatrice di caratteri, di «personaggi che vivono nella realtà per conto loro». Nella novella Personaggi Pirandello cita il Piano astrale di Leadbeater, la bibbia di chi, in quel periodo, si occupava di fenomeni psichici, tradotta in Italia nel 1905: il protagonista della novella, Leandro Scoto, parla di «esseri viventi che appena formati non sono più sotto il controllo del suo creatore».

Nel 1906 Luigi Capuana scriverà allo scrittore agrigentino una Lettera aperta a Luigi Pirandello a proposito di un fantasma, nella quale lo scrittore mineolo rievoca una seduta spiritica alla quale entrambi assistettero durante un soggiorno romano: «[…] Non ho dimenticato la seduta del medium Politi a cui assistemmo insieme, in casa di quel principe romano del quale in questo momento mi sfugge il nome. Vedemmo cose da far strabiliare: globi fosforescenti che erravano sotto la volta dello stanzone dove si facevano gli esperimenti […]. Il profilo di un fantasma su l’alto della tenda dietro cui stava il Politi in trance, mentre la tenda veniva spinta fin sulle nostre teste [...]».

Di quell’accadimento rimane traccia nella celebre seduta spiritica de Il fu Mattia Pascal e da lì derivano anche, molto probabilmente, le letture che Pirandello fece in quegli anni e che affiorano dalle pagine de La casa del Granella e de Il fu Mattia Pascal: Leadbeater, Annie Besant, madame Blavatsky, Aksakov, Morselli, Gibier, Janet, Richet. Insomma, la «biblioteca teosofica» che l’affittacamere Anselmo Paleari schiude agli occhi di Adriano Meis nel XIII capitolo del romanzo si dissemina tra Ottocento e Novecento nelle opere di scienziati, filosofi, scrittori e poeti articolandosi rizomaticamente in una «enciclopedia del paranormale» che nutrirà generazioni di scrittori sino ad approdare alle odierne attestazioni cui la raccolta di Raimondo Raimondi, anch’egli appassionato cultore dell’esoterismo e frequentatore dell’occulto, può ascriversi.

I racconti di Raimondi vanno ben oltre l’assunto, fatto proprio dalla critica più radicale del genere horror, secondo cui l’espressione letteraria e cinematografica del «paranormale» porta all’estremo l’affermazione, implicita anche nella fiction, per cui si raccontano storie orrifiche in quanto la vita vera non appaga a sufficienza.

Senza voler qui dare un giudizio di valore o tentare una lettura socioantropologica dell’«elemento spaventoso» che sostanzia le storie e la scrittura di Raimondi, non si può, comunque, non constatare che, nella letteratura horror come in quella del paranormale, l’«elemento spaventoso» esprime un’inquietudine latente dell’individuo e della società nei confronti del reale che si manifesta nel sentimento della paura.

È vero che la storia recente dell’horror implica uno spettro di reazioni più ampio del semplice provare paura – penso, per fare un esempio, al disgusto, posto al centro di alcuni sottogeneri in voga dagli anni Settanta in poi come il body horror, che chiama in causa estetiche splatter e gore – ma è incontrovertibile il fatto che nell’horror, come nel paranormale, l’obiettivo principale è causare nel destinatario un sentimento di inquietudine attraverso la storia di qualcuno al quale accade qualcosa di anomalo.

I racconti di Raimondi, in ossequio a tale statuto narrativo, raccontano al lettore la paura di essere aggrediti da forze che non possiamo dominare, la paura di far fronte alle sfide del reale e quella, speculare e affine, di confrontarsi con un passato che non riusciamo spesso a esorcizzare. Come ha mirabilmente sintetizzato il semiologo bulgaro Cvetan Todorov in un sua opera fondamentale (La letteratura fantastica, 2000) dedicata allo statuto narrativo del genere fantastico, quello che in un racconto horror viene etichettato come “mostro” ed è, per riassumere, la figura perturbante che incrina il paradigma di realtà scatenando così la paura del personaggio – e, di riflesso, quella dei lettori – altro non è che la rappresentazione concreta di paure storicamente radicate. In tal senso, facendo leva sulle inquietudini e sulle paure di questo tempo, Raimondo Raimondi, nei suoi racconti ricorrendo a una imagerie e a un repertorio tràdito attinti alla vastissima produzione cinematografica, fumettistica, televisiva, letteraria e del mondo della gamification e ormai inscritti nell’immaginario collettivo di generazioni – suscita l’Unheimliche, il «perturbante» che si manifesta nella realtà quotidiana quando il familiare diventa estraneo o l’estraneo diventa familiare, come ha teorizzato Freud nel suo celebre saggio (Il perturbante, 1919) dedicato all’argomento.

A rendere una storia perturbante, di solito, contribuisce in buona misura l’ambientazione della storia narrata.

Nei diciassette racconti che compongono la raccolta (Satanassi, Le belle Signore, Incubi, Istinti, La Notte, Bikers, Trappole, La conta, La villa, I mostri, Ex Libris, L’appuntamento, Spiritismo, Lo stupro, La casa dei tre tocchi, L’aborto, La bestia) il fondale e l’ambientazione della storia evocano l’inatteso e innescano il meccanismo attraverso cui si propagano l’orrifico e lo sgomento. Così accade nel racconto La villa, nel quale la coppia di ladri d’appartamento si ritrova catapultata, improvvisamente, nella quiete di una innocua dimora borghese, in un luogo ostile popolato da oscure presenze, come accade nell’Hotel di Shining di Stanley Kubrick. In Trappole, invece, il rito catartico messo a punto da Gaudenzio, che fa a pezzi con una affilatissima katana il giovane omosessuale per purificare il mondo dalle sue lordure, si consuma in un anonimo appartamento «piccolo ma accogliente, arredato con gusto». Dietro l’apparente tranquillità e normalità del mondo borghese, dunque, si celano il male e la mostruosità.

In altri racconti, le situazioni perturbanti sono ricondotte dall’autore a espressioni dell’orrifico di consolidata tradizione. In Satanassi, la scena dell’orgia nella villa nobiliare in cui Lucifero in persona possiede l’ingenua Flora ammicca alla scena dell’orgia in maschera e al personaggio di Albertine nella novella Doppio sogno (1926) di Arthur Schnitzler; mentre, in Le Belle Signore, il protagonista Martino non si salva dal morso esiziale della Bella Signora che «cantò parole d’amore suadenti come un richiamo di sirena e lo avvolse nelle pieghe delle sue vesti leggere». In Incubi l’incubo, con un esplicito richiamo-denuncia alla realtà odierna, si trasforma nel crudo fatto di cronaca che registra, come in una sequenza di film horror, l’abominio dei «corpi devastati, le orbite vuote, sbiancate dalla salsedine, divorate dai pesci... uomini, donne... e i bambini, corpi piccoli che galleggiavano dappertutto con le pance gonfie d’acqua di mare» nel resoconto allucinato del vecchio marinaio.

Raimondi passa in rassegna i personaggi-tipo della letteratura del terrore – mostri, diavoli, licantropi, streghe, fantasmi, killer seriali, creature del male – trasformandoli in metafore, ossia in figure retoriche costruite sull’analogia tra ambiti semantici diversi. Volendo incarnare il sentimento della paura in quanto tale, in assoluto, esse devono necessariamente combinare insieme paure che hanno cause diverse: economiche, ideologiche, psichiche, sessuali, come la carrellata di situazioni e di circostanze narrate da Raimondi dimostra.

L’autore, nel dare adito a una invenzione extravagante e rapinosa, rivela la capacità di creare nei suoi racconti una atmosfera di convenzionalità e di normalità per poi, con studiata strategia narrativa, destituirla per rivelare i sorprendenti mondi oscuri contigui al quotidiano, sorprendendo il lettore e suscitando quel sentimento di disorientamento, di stordimento e di panico dal quale, come teorizza Kant nella Critica del Giudizio, scaturisce il sentimento del sublime.

I racconti di Raimondi provengono dalla grande tradizione europea della short story, l’arte del racconto, genere letterario di complessa strategia narrativa che l’autore padroneggia con raffinata e colta maestria. Sono racconti essenziali, nudi e inquietanti, che si sciolgono in uno stile sobrio fecondato da risonanze raffinate, che sa essere acre nel testimoniare la «maleficità» dell’essere umano.

Nella sobrietà, nell’implicito, nell’allusivo Raimondi si rivela peritissimo e accorto narratore. L’ironia che si coglie nei personaggi, il sapere raccontare attraverso dialoghi autentici e veri, la perfetta comprensione degli stati d’animo dei personaggi, il ritmo e la qualità della scrittura, la capacità di descrivere atmosfere, luoghi, dimensioni infere e catabasi verso la gorge dell’esistenza umana danno la cifra di un’arte narrativa matura che seduce il lettore trascinandolo, come una Bella Signora, dentro le sue pagine sulfuree e ammagatrici. 

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