"DIABULUNA" A MONGIBELLO: INTERMITTENZE E RICORRENZE DEL GENERE PARANORMALE NEGLI SCRITTORI SICILIANI
Intermittenze e ricorrenze del genere paranormale negli scrittori siciliani
Leggendo
Satanassi e belle signore, sapida e maliosa raccolta di «racconti
del paranormale» che Raimondo Raimondi
consegna al pubblico in un tempo – quello che tutti noi oggi stiamo
vivendo – in cui «normale» e «paranormale»
sembrano essersi scambiati i ruoli, mi è tornata alla memoria la celebre
battuta con cui il critico Pietro Bianchi licenziò la recensione a La
moglie di Frankenstein (Bride of Frankenstein,
di James Whale, 1935) sul settimanale umoristico
milanese «Bertoldo», investendo il genere dell’orrore di un
«luogo comune», poi divenuto un vero e proprio stigma,
tipico della cultura italiana: «Da buoni mediterranei non abbiamo
alcuna simpatia per gli orrori. Spiriti, mostri, fantasime
li lasciamo agli uomini del nord». Eppure, pochi luoghi al mondo come
l’Italia e la Sicilia sono stati frequentati e “abitati” dal
«paranormale» con una assiduità a dir poco sospettevole. Di tale assiduità la letteratura si
è fatta spesso indiscreta testimone, se non addirittura sodale, complice
e cospiratrice.
In
principio fu il Mongibello.
Se,
infatti, come vuole Maria Corti (Catasto magico, 1999), tra le ariose
schermaglie di Eolo e le sulfuree intemperanze di Tifeo,
nelle sotterranee fucine di Efesto e sulle
sommità del vulcano, si danno congrega e s’adunano giganti
mitologici, diavoli e creature fatate, anche il semiologo russo Jurij Lotman, visitando l’Etna e il bosco del Ragabo in compagnia dell’editore e sodale Mario
Grasso alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, non rimase indifferente
all’ineffabile fascino dell’ignoto scorgendo in quei luoghi fate e
muse «fare il girotondo», come disse
all’accompagnatore citando un antico adagio delle sue terre.
D’altra parte, anche i pastori di piano Provenzana
sono adusi da tempo immemorabile a visitazioni notturne soprannaturali la cui
memoria è incisa nei versi tramandati nel loro aspro dialetto: «Diabuluna, c’abbitati
Muncibeddu, / scinniti, ca bbi veni di calata; / puttativi la ‘ncunia e lu matteddu, /cc’è
di buscari na bbona iurnata».
La
Trinacria, da sempre, è
“posseduta” dal paranormale, che intrama,
alita e nutre il «quotidiano favoloso» degli isolani con
quelle «ebullizioni di chimere»
attraverso le quali il Mago Cotrone, ne I giganti
della montagna di Luigi Pirandello, seduceva la compagnia della contessa Ilse Paulsen: «Siamo qua
come agli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando, si distaccano;
entra l’invisibile: vaporano i fantasmi. È cosa naturale. Avviene,
ciò che di solito nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia»
(Atto II).
Dalle
ottave che l’arcade Giovanni Meli dedicò alla Villa dei Mostri a
Bagheria (Giovi guardau da la sua reggia immensa /
la bella Villa di la Bagaria, / ùnni
l’arti impetrisci, eterna e addensa /
l’aborti di bizzarra fantasia. / “Viju
– dissi – la mia insufficienza; / mostri n’escogitai quantu putìa; / là duvi terminau la mia putenza, / ddà stissu incuminciau
Palagonia”», passando per l’interesse nutrito per il
paranormale da scrittori quali Capuana, De Roberto, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, sino a giungere a scrittori siciliani
contemporanei quali, tra gli altri, Chiara Palazzolo, Marinella Fiume (Sicilia
esoterica, 2013) Massimo Maugeri (Trinacria Park, 2013) Simona Lo Iacono (La coda di pesce che inseguiva l’amore,
2010), Corrado Di Pietro (Cassandra, 2020) e Luca Raimondi
(Marenigma, 2021), i cui saggi, romanzi e
racconti sono attraversati e brividati
dall’orrido, dal fantastico e dal paranormale, di fatto, la letteratura
siciliana sfata il luogo comune che il paranormale e l’horror siano
generi relegati a una «letteratura minore».
Nella
seconda metà dell’Ottocento, allucinazioni, condizioni psichiche
alterate, trances magnetiche e
spiritiche connesse agli studi sull’isteria erano spesso collegate
all’attività del genio e alla creazione artistica, che si
configura come manifestazione del daimon e
come momento di eccitazione fuori dalla norma. Anche lo scrittore poteva essere
un caso clinico da studiare insieme alle isteriche, ai sonnambuli e ai medium.
Come ha acutamente osservato Simona Cigliana (2005),
nel saggio pubblicato nel 1908 e dedicato a Arte e Scienza, Pirandello
sostiene che l’opera dell’artista scaturisce da uno stato
d’incoscienza, sul modello della condizione alterata messa in luce da
Alfred Binet nel volume Les
altérations de la personalité
(1892).
Nei
primi decenni del Novecento, nella remota magione di Capo d’Orlando, a Vinea, i baroni Lucio e Casimiro Piccolo di Calanovella, intellettuali tra i più colti e
raffinati del loro tempo, intrattenevano occulti commerci con le anime dei
trapassati fotografando e dipingendo gli elfi e le fate che popolavano il loro
giardino. Lucio Piccolo, poeta, musicologo e filosofo, intrattenne per anni una
corrispondenza epistolare con il poeta irlandese William Butler
Yeats sulla natura delle fate e sulla importanza dell’elemento equoreo
nello spiritismo. Sarà proprio dall’elemento equoreo che Giuseppe Tomasi di Lampedusa, cugino dei Piccolo e autore de Il
Gattopardo (1958), farà scaturire una delle figure più
sensuali e insidiose della letteratura di tutti i tempi, la sirena Lighea, protagonista del racconto La sirena (1958).
Mentre
nella Palermo del XVII faceva la sua apparizione uno dei primi assassini
seriali, tale Francesca Rapisardi, detta La Sarda,
avvelenatrice e «imprenditrice del veleno» –
così la definì Rosario La Duca nel suo prezioso I Veleni di
Palermo (1976) – nel XVIII secolo una sua emula, Giovanna Bonnano, la Vecchia dell’Aceto, inaugurava
alla Zisa un vero e proprio «business della
morte» somministrando ai moribondi la sua pozione a base di aceto per
pidocchi per affrettarne la morte. La carriera della Vecchia
dell’aceto si concluse quando fu presa e rinchiusa in quello che a
quei tempi era stato un luogo di detenzione per streghe, fattucchiere ed
eretiche: il carcere dello Steri. Qui la donna fu processata e condannata per
veneficio e stregoneria, come narra Luigi Natoli,
l’autore de I Beati Paoli (1912), in un suo famoso racconto.
Nutriti
da un humus socio-antropologico del genere, seguendo l’oscuro crinale delle
turbe psichiche, dell’incesto, del delitto e del maleficio scrittori come
Luigi Capuana tentano di giungere, con la loro scrittura, al cuore nero fantasmatico che si nasconde sotto la realtà.
Per
gli studiosi delle origini e degli sviluppi del genere paranormale in Italia,
Luigi Capuana è un riferimento imprescindibile ma, spesso, quasi
ignorato, in quanto sulla sua opera grava l’etichetta
“realista” che lo apparenta a Giovanni Verga annoverandolo tra i
rappresentanti di punta del verismo italiano.
Sentimenti
drammatici – violenza, follia, incesto, assassinio – insieme alla
registrazione di eventi fuori dal comune – fantasmi, entità
ultraterrene, vampiri, mostri creati da esperimenti medici –
irrompono nelle vite dei personaggi dello scrittore siciliano e le sconvolgono,
da Spiritismo? (1884), a Un vampiro, racconto apparso su
«La lettura» nel 1904 e poi in volumetto nel 1907, sino a Storia
fosca (1881). L’indagine negli ambiti dell’occultismo e della
parapsicologia ha prodotto fecondi influssi sull’opera del mineolo; influssi ereditati in seguito da scrittori
conterranei come Luigi Pirandello.
Tutta
l’opera di Pirandello è inquietata dal paranormale.
Dall’anatomia della follia che affiora dalle pagine de L’Esclusa
(1901), il suo primo romanzo, all’epifania di Madama Pace ne I sei
personaggi in cerca d’autore (1921), all’attenzione mostrata
per la teosofia e per lo spiritismo da Anselmo Paleari
ne Il fu Mattia Pascal (1904), sino all’evocazione delle Donne
di fuora – streghe dell’aria che
vanno in giro di notte a sostituire bambini belli e sani con altri deformi e
malaticci – ne La favola del figlio cambiato (1931) e alle
creature di sogno che vivono nella Villa della Scalogna ne I giganti
della montagna (1934) – non a caso pubblicato nel 1931 su La
Nuova Antologia con il titolo I fantasmi. Lo scrittore agrigentino
volge lo sguardo alle zone più oscure della coscienza facendo affiorare
gli avatar che, come materializzazioni, apparizioni o epifanie, rendono
conto di una realtà e di un mondo autre
che la letteratura è chiamata a scandagliare e a investigare.
Nel
saggio Arte e scienza del 1908, Pirandello parla di
un’attività inconscia creatrice di caratteri, di «personaggi
che vivono nella realtà per conto loro». Nella novella Personaggi
Pirandello cita il Piano astrale di Leadbeater,
la bibbia di chi, in quel periodo, si occupava di fenomeni psichici, tradotta
in Italia nel 1905: il protagonista della novella, Leandro Scoto, parla di
«esseri viventi che appena formati non sono più sotto il
controllo del suo creatore».
Nel
1906 Luigi Capuana scriverà allo scrittore agrigentino una Lettera
aperta a Luigi Pirandello a proposito di un fantasma, nella quale lo
scrittore mineolo rievoca una seduta spiritica alla
quale entrambi assistettero durante un soggiorno romano: «[…] Non
ho dimenticato la seduta del medium Politi a cui assistemmo insieme, in casa di
quel principe romano del quale in questo momento mi sfugge il nome. Vedemmo
cose da far strabiliare: globi fosforescenti che erravano sotto la volta dello
stanzone dove si facevano gli esperimenti […]. Il profilo di un fantasma
su l’alto della tenda dietro cui stava il Politi in trance, mentre la
tenda veniva spinta fin sulle nostre teste [...]».
Di
quell’accadimento rimane traccia nella celebre seduta spiritica de Il fu
Mattia Pascal e da lì derivano anche, molto probabilmente, le
letture che Pirandello fece in quegli anni e che affiorano dalle pagine de La
casa del Granella e de Il fu Mattia Pascal: Leadbeater, Annie Besant, madame Blavatsky, Aksakov, Morselli, Gibier, Janet, Richet. Insomma, la «biblioteca teosofica»
che l’affittacamere Anselmo Paleari schiude
agli occhi di Adriano Meis nel XIII capitolo del
romanzo si dissemina tra Ottocento e Novecento nelle opere di scienziati,
filosofi, scrittori e poeti articolandosi rizomaticamente
in una «enciclopedia del paranormale» che nutrirà
generazioni di scrittori sino ad approdare alle odierne attestazioni cui la
raccolta di Raimondo Raimondi, anch’egli
appassionato cultore dell’esoterismo e frequentatore dell’occulto,
può ascriversi.
I
racconti di Raimondi vanno ben oltre l’assunto,
fatto proprio dalla critica più radicale del genere horror, secondo cui
l’espressione letteraria e cinematografica del «paranormale»
porta all’estremo l’affermazione, implicita anche nella fiction,
per cui si raccontano storie orrifiche in quanto la
vita vera non appaga a sufficienza.
Senza
voler qui dare un giudizio di valore o tentare una lettura socioantropologica
dell’«elemento spaventoso» che sostanzia le storie e
la scrittura di Raimondi, non si può,
comunque, non constatare che, nella letteratura horror come in quella del
paranormale, l’«elemento spaventoso» esprime
un’inquietudine latente dell’individuo e della società nei
confronti del reale che si manifesta nel sentimento della paura.
È
vero che la storia recente dell’horror implica uno spettro di
reazioni più ampio del semplice provare paura – penso, per
fare un esempio, al disgusto, posto al centro di alcuni sottogeneri in
voga dagli anni Settanta in poi come il body horror, che chiama in causa
estetiche splatter e gore – ma è incontrovertibile
il fatto che nell’horror, come nel paranormale, l’obiettivo
principale è causare nel destinatario un sentimento di inquietudine attraverso
la storia di qualcuno al quale accade qualcosa di anomalo.
I
racconti di Raimondi, in ossequio a tale statuto
narrativo, raccontano al lettore la paura di essere aggrediti da forze che non
possiamo dominare, la paura di far fronte alle sfide del reale e quella,
speculare e affine, di confrontarsi con un passato che non riusciamo spesso a
esorcizzare. Come ha mirabilmente sintetizzato il semiologo bulgaro Cvetan Todorov in un sua opera
fondamentale (La letteratura fantastica, 2000) dedicata allo
statuto narrativo del genere fantastico, quello che in un racconto horror viene
etichettato come “mostro” ed è, per riassumere, la figura perturbante
che incrina il paradigma di realtà scatenando così la paura
del personaggio – e, di riflesso, quella dei lettori – altro
non è che la rappresentazione concreta di paure storicamente radicate.
In tal senso, facendo leva sulle inquietudini e sulle paure di questo tempo,
Raimondo Raimondi, nei suoi racconti –
ricorrendo a una imagerie e a un
repertorio tràdito attinti alla vastissima
produzione cinematografica, fumettistica, televisiva, letteraria e del mondo
della gamification e ormai inscritti
nell’immaginario collettivo di generazioni – suscita
l’Unheimliche, il «perturbante»
che si manifesta nella realtà quotidiana quando il familiare diventa
estraneo o l’estraneo diventa familiare, come ha teorizzato Freud nel suo
celebre saggio (Il perturbante, 1919) dedicato all’argomento.
A
rendere una storia perturbante, di solito, contribuisce in buona misura
l’ambientazione della storia narrata.
Nei
diciassette racconti che compongono la raccolta (Satanassi, Le belle Signore, Incubi, Istinti, La Notte, Bikers, Trappole, La conta, La villa, I mostri, Ex Libris,
L’appuntamento, Spiritismo, Lo stupro, La casa dei tre tocchi,
L’aborto, La bestia) il fondale e l’ambientazione della storia
evocano l’inatteso e innescano il meccanismo attraverso cui si propagano
l’orrifico e lo sgomento. Così accade
nel racconto La villa, nel quale la coppia di ladri d’appartamento
si ritrova catapultata, improvvisamente, nella quiete di una innocua dimora
borghese, in un luogo ostile popolato da oscure presenze, come accade
nell’Hotel di Shining di Stanley
Kubrick. In Trappole, invece, il rito catartico messo a punto da Gaudenzio, che fa a pezzi con una affilatissima katana il
giovane omosessuale per purificare il mondo dalle sue lordure, si consuma in un
anonimo appartamento «piccolo ma accogliente, arredato con
gusto». Dietro l’apparente tranquillità e
normalità del mondo borghese, dunque, si celano il male e la
mostruosità.
In
altri racconti, le situazioni perturbanti sono ricondotte dall’autore a
espressioni dell’orrifico di consolidata
tradizione. In Satanassi, la scena dell’orgia nella villa
nobiliare in cui Lucifero in persona possiede l’ingenua Flora ammicca
alla scena dell’orgia in maschera e al personaggio di Albertine
nella novella Doppio sogno (1926) di Arthur Schnitzler; mentre, in Le
Belle Signore, il protagonista Martino non si salva dal morso esiziale
della Bella Signora che «cantò parole d’amore suadenti
come un richiamo di sirena e lo avvolse nelle pieghe delle sue vesti leggere».
In Incubi l’incubo, con un esplicito richiamo-denuncia alla
realtà odierna, si trasforma nel crudo fatto di cronaca che registra,
come in una sequenza di film horror, l’abominio dei «corpi
devastati, le orbite vuote, sbiancate dalla salsedine, divorate dai pesci...
uomini, donne... e i bambini, corpi piccoli che galleggiavano dappertutto con
le pance gonfie d’acqua di mare» nel resoconto allucinato del
vecchio marinaio.
Raimondi
passa in rassegna i personaggi-tipo della letteratura del terrore –
mostri, diavoli, licantropi, streghe, fantasmi, killer seriali, creature del
male – trasformandoli in metafore, ossia in figure retoriche
costruite sull’analogia tra ambiti semantici diversi. Volendo incarnare
il sentimento della paura in quanto tale, in assoluto, esse devono
necessariamente combinare insieme paure che hanno cause diverse: economiche,
ideologiche, psichiche, sessuali, come la carrellata di situazioni e di
circostanze narrate da Raimondi dimostra.
L’autore,
nel dare adito a una invenzione extravagante e rapinosa, rivela la
capacità di creare nei suoi racconti una atmosfera di
convenzionalità e di normalità per poi, con studiata strategia
narrativa, destituirla per rivelare i sorprendenti mondi oscuri contigui al
quotidiano, sorprendendo il lettore e suscitando quel sentimento di
disorientamento, di stordimento e di panico dal quale, come teorizza Kant nella Critica del Giudizio, scaturisce il
sentimento del sublime.
I
racconti di Raimondi provengono dalla grande tradizione
europea della short story, l’arte del racconto, genere letterario
di complessa strategia narrativa che l’autore padroneggia con raffinata e
colta maestria. Sono racconti essenziali, nudi e inquietanti, che si sciolgono
in uno stile sobrio fecondato da risonanze raffinate, che sa essere acre nel
testimoniare la «maleficità»
dell’essere umano.
Nella sobrietà, nell’implicito, nell’allusivo Raimondi si rivela peritissimo e accorto narratore. L’ironia che si coglie nei personaggi, il sapere raccontare attraverso dialoghi autentici e veri, la perfetta comprensione degli stati d’animo dei personaggi, il ritmo e la qualità della scrittura, la capacità di descrivere atmosfere, luoghi, dimensioni infere e catabasi verso la gorge dell’esistenza umana danno la cifra di un’arte narrativa matura che seduce il lettore trascinandolo, come una Bella Signora, dentro le sue pagine sulfuree e ammagatrici.
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